Il mio incontro con Dan Brown
Chissà cosa significa vendere 300 milioni di copie in tutto il mondo.
Chissà cosa vuol dire essere uno degli autori più famosi e letti del pianeta. Come ci si sente, come si va in giro, che emozioni si provano ad incontrare i lettori.
Mi sono domandata queste cose domenica mattina quando all’Hotel Four Seasons di Via Montenapoleone - posto parecchio carino eh - ho incontrato Dan Brown.
Non era la prima volta, dieci anni fa per il lancio mondiale del film Inferno lo avevo intervistato a Firenze.
Ma il tempo passa, si diventa più saggi. E se dieci anni fa ero una giornalista giovane un po’ snob che, come speso accade in gioventù, guardavo al successo con spocchia -ah tu piaci a tutti! A me piacciono gli sconosciuti (che fa un po’ il pari con: belli i Greenday, ma solo i primi album) - oggi ho cambiato opinione.
Sguazzo nel mondo editoriale da troppo tempo per non rendermi conto che dietro ai grossi successi spesso si celano più che chissà quali poteri magici, grande lavoro, costanza, intelligenza e soprattutto una capacità sopra la media.
E a Dan Brown proprio nulla gli si può dire. È stato in grado di creare un mix perfetto tra suspense, intrattenimento, mistero, e grandi temi. E in più ci ha aggiunto Robert Langdon, uno dei personaggi più iconici della narrativa recente. Chi l’avrebbe mai detto che un prof di simbologia un po’ dinoccolato, con un orologio di Mickey Mouse al polso avrebbe conquistato così tante lettrici e lettori?
Dell’incontro che abbiamo avuto mi hanno colpita queste cose:
la sua simpatia ed entusiasmo- di interviste e presentazioni ne ha fatte tante ma in ognuna ci ha messo passione e attenzione nei confronti della persona che si trovava di fronte-, il suo rigore- si alza ogni giorno alle 4 del mattino per scrivere… mi sono detta… ecco perché io non sono Dan Brown!-, il suo amore per la curiosità e lo studio che trasmette nei suoi romanzi che sono letti da tutti e che forse ispireranno tanti a tornare sui libri o a farsi nuove domande.
In più in L’ultimo segreto affronta un tema ENORME che è scientifico e filosofico… la coscienza umana.
Buona lettura! E fatemi sapere che ne pensate.
A guardarlo dal vivo, Dan Brown ha la stessa calma e la stessa ironia del suo alter ego. Parla piano, con il tono di chi pesa ogni parola, ma sempre col sorriso.
A Milano, sul palco del Teatro Carcano, è arrivato con suo padre, Richard Brown, ex insegnante di matematica e compositore.
È stato proprio lui, racconta Dan, a trasmettergli la passione per le scienze, per le domande, per la logica che si apre al mistero. «Da bambino organizzava per me delle cacce al tesoro piene di enigmi e codici», ha ricordato. «Forse tutto è cominciato lì.»
Durante la presentazione del nuovo thriller, L’ultimo segreto – The Secret of Secrets, il padre gli ha dedicato un monologo tenero e orgoglioso, definendolo “una delle persone più gentili e altruiste che conosca”. E lui, visibilmente emozionato, ha ringraziato con un sorriso.
Nato nel 1964 a Exeter, nel New Hampshire, cresciuto tra una madre musicista e un padre scienziato, Brown ha respirato sin da bambino quella tensione tra arte e ragione che è diventata la cifra dei suoi libri. Prima di scrivere, ha fatto il musicista, pubblicando quattro album e insegnando inglese. Poi, nel 1996, ha deciso di dedicarsi interamente alla scrittura.
Il suo primo romanzo, Crypto, ha venduto — come ha detto ridendo — «dodici copie, più o meno come i miei dischi». Ma non si è fermato. Ha continuato a scrivere, con la tenacia di chi non si accontenta.
Così, con la pazienza di un orologiaio, ha costruito romanzi che hanno ridefinito il thriller contemporaneo, fondendo il piacere dell’enigma con riflessioni su arte, fede, scienza e, nel suo nuovo libro, neuroscienze e coscienza umana.
Partiamo dal cuore del libro: perché ha scelto di esplorare il tema della coscienza umana?
Negli anni ho sempre cercato di scrivere su temi che spingessero il lettore a porsi delle domande, a riflettere, a mettersi in discussione. Ho affrontato argomenti come la discendenza di Cristo, l’intelligenza artificiale, la simbologia religiosa.
Ma quando ho iniziato a riflettere sul tema della coscienza, mi sono reso conto che stavo toccando qualcosa di ancora più profondo: la base stessa attraverso cui percepiamo tutto ciò che ci circonda.
La coscienza è la lente con cui vediamo il mondo, con cui ci relazioniamo agli altri, con cui comprendiamo noi stessi. Eppure è anche uno dei più grandi misteri scientifici e spirituali della nostra epoca. Era un territorio affascinante, ma anche incredibilmente complesso, e infatti questo libro ha richiesto più tempo degli altri. Ma volevo davvero entrare lì, esplorare cosa significhi essere vivi, essere coscienti — e cosa potrebbe esserci oltre.
Che tipo di ricerca ha fatto per affrontare un tema così vasto e filosofico?
La ricerca è stata lunga e intensa, molto più del solito. Ho incontrato e intervistato fisici, neuroscienziati, esperti di coscienza, studiosi del campo della noetica — che è una scienza ancora giovane ma estremamente affascinante.
E poi ho parlato con persone che hanno vissuto esperienze di premorte, che hanno avuto sensazioni extracorporee, che raccontano con lucidità qualcosa che va oltre la logica e la materia.
Queste conversazioni mi hanno messo in discussione. Se mi aveste chiesto otto anni fa cosa accade dopo la morte, vi avrei detto con sicurezza: “Niente. Si chiude il sipario, e basta.”
Ora non ne sono più tanto sicuro. Non dico che abbia trovato delle risposte — ma ho trovato delle possibilità. E la narrativa è il luogo perfetto per esplorarle, per farlo insieme al lettore, senza dare dogmi o soluzioni, ma accendendo dubbi.
Cosa vorrebbe che i lettori portassero con loro, oltre al piacere della trama?
Spero che si divertano, ovviamente — L’ultimo segreto è prima di tutto un thriller, un viaggio pieno di misteri, inseguimenti, colpi di scena.
Ma oltre a questo, vorrei che si accendesse qualcosa: una curiosità, il desiderio di approfondire.
Il tema della coscienza è qualcosa che ci riguarda tutti, non è un concetto astratto riservato ai filosofi. È il modo in cui viviamo, amiamo, soffriamo, percepiamo.
Se, una volta finito il libro, il lettore sente il bisogno di cercare altri testi, altri autori, magari anche posizioni contrastanti… allora avrò fatto bene il mio lavoro.
Scrivo per divertire, sì, ma anche per stimolare la mente. E questo libro in particolare è un invito a guardarsi dentro.
Robert Langdon è al suo fianco da venticinque anni. Che rapporto ha oggi con lui?
Beh, direi che è diventato parte della mia identità. Io invecchio — lui no!
Ma più passa il tempo, più lo sento vicino. Condividiamo la passione per l’arte, l’architettura, la storia. Ma soprattutto abbiamo un modo simile di guardare il mondo: siamo entrambi scettici, razionali, ma con un grande rispetto per ciò che non comprendiamo ancora.
Quello che amo di Langdon è che è curioso, ma anche umile. È uno che ha bisogno delle prove, che non si fa facilmente trascinare da teorie infondate. Ma è anche pronto a rimettersi in discussione. In questo nuovo libro, ad esempio, è proprio la sua compagna di viaggio — Katherine Solomon — a portarlo a vedere le cose in modo diverso. Lei crede in ciò che lui rifiuta. E lui, alla fine, si apre. Questo per me è l’emblema della vera intelligenza: saper cambiare idea.
Ha mai pensato di cambiare qualcosa di iconico in lui?
No, mai! L’orologio di Topolino resterà sempre con lui. È parte del suo carattere.
Rappresenta quella leggerezza, quell’ironia, che bilancia la sua serietà accademica.
Per la cronaca, ho a casa l’orologio che Tom Hanks ha indossato nel film. Lo adoro. Pensavo di metterlo oggi per questa intervista, ma poi ho avuto paura di perderlo! È un oggetto speciale, e mi ricorda da dove è partito tutto.
Ha parlato spesso dei suoi fallimenti. Quanto hanno contato nel suo percorso?
Hanno contato tutto. Prima di essere uno scrittore pubblicato, ero un musicista, e facevo concerti in cui non veniva nessuno. Ho scritto romanzi che non ha letto nessuno, ho bussato a porte che non si sono mai aperte. Ma tutto questo mi ha insegnato qualcosa: la perseveranza. E soprattutto, mi ha dato una prospettiva diversa sul successo. Oggi sono grato per ogni lettore, per ogni persona che entra in libreria e sceglie un mio libro. So cosa significa non essere ascoltati, e questo rende ogni conquista ancora più significativa. Penso che ogni artista, ogni creativo, debba attraversare il fallimento. Ti forma, ti dà spessore. Ti obbliga a capire se davvero vuoi farlo.
Ha un motto, una frase guida?
Ce n’è una che mi accompagna da anni, di Winston Churchill:
Il successo è la capacità di passare da un fallimento all’altro senza perdere entusiasmo.
È una frase semplice, ma potentissima. Il fallimento non è un muro, è un passaggio. L’importante è non lasciarsi bloccare, ma osservare, capire cosa non ha funzionato, e poi riprovarci, magari con una piccola variazione. Non bisogna avere paura di fallire — bisogna avere paura di non provarci.
Si alza ancora alle quattro del mattino per scrivere?
Sì. Anche stamattina mi sono alzato alle quattro. E considera che siamo andati a dormire piuttosto tardi ieri sera! È il mio momento creativo, quando tutto è silenzioso, il mondo dorme e la mente è libera.
Qual è il libro che, letto quando era bambino, le ha cambiato la vita?
Senza dubbio A Wrinkle in Time di Madeleine L’Engle. Un romanzo per ragazzi che conteneva tutto quello che amavo: scienza, mistero, amore, avventura. È stato il libro che mi ha fatto scoprire il piacere autentico della lettura. Dopo quello, non ho più smesso. Leggevo ovunque, in ogni momento libero. E poco dopo ho iniziato anche a scrivere. Quel libro mi ha cambiato. E spero che anche i miei, in qualche modo, possano avere lo stesso effetto su qualcuno.






Che bello leggere questa intervista. Mi ricordano quanto la perseveranza e la fiducia in se stessi siano fondamentali. Quando si continua a credere nei propri sogni, anche nei momenti più difficili, e si fanno le cose con amore e dedizione, i risultati prima o poi arrivano sempre. La passione, la curiosità e la costanza sono la vera forza di chi non smette mai di provarci. ❤️