La mia intervista a Nathan Hill
“L’amore vero non è aggrapparsi per sentirsi al sicuro, ma lasciare che l’altro sia se stesso”
La mia intervista a Nathan Hill
Ci sono vari motivi per cui ero molto emozionata di conoscere Nathan Hill -ho pensato mentre sulla mia ypsilon scassata ho guidato da casa fino a Vigevano dove l’ho presentato a quel delizioso festival che si chiama Supercali, pensavo a Nathan Hill e pensavo al fatto che dovrei comprarmi una macchina nuova, ma non ho nessuna voglia di spendere soldi per acquistare un’auto, oggetto che uso perché mi serve ma di cui farei assolutamente a meno, odio guidare, odio il traffico, odio l’inquinamento, ma purtroppo non vivo chiusa in un ranch in Texas e nemmeno sono talmente ricca o famosa da avere un autista-
Pensavo a Nathan Hill e pensavo alla macchina. Pensavo ai desideri indotti di una società che ci rende bisognosi di cose spesso inutili e ci fa sentire tristi perché non riusciamo a permettercele.
A Venezia ricordo di aver detto a Elisa (@cortomiraggi) che condivide la casina in cui dormiamo al Lido durante al Mostra del cinema, che mi sento come Elizabeth. Io l’ho capita quella donna (ok, è un personaggio, ma per me è un essere vivente ormai), che arrivata a quarant’anni ha costantemente bisogno di qualcosa di più.
Anche io – fino a che ero trentenne, sola, vagavo libera per la città- ero convinta che sarebbe bastato poco: una casa carina, dei buoni amici, un cane, stare in una città che offre mille opportunità di fermento culturale. “Basta poco per sentirsi soddisfatti, non dico felici” ripetevo.
Poi si cresce, si fanno figli, ci si misura con le ambizioni e i sogni. Gli spazi non bastano mai. Quella curva a U di cui parla Nathan Hill nel suo romanzo te la senti addosso (parla di quella ricerca- vera- per cui ci sente felici a 20 e 60 anni mentre a 40 si raggiunge la gola profonda dell’insoddisfazione).
Chissà cosa ci manca, chissà perché.
Chissà perché le nostre case sono sempre troppo piccole, chissà perché le città ci vanno strette, ma le province ci annoiano. Chissà perché facciamo così fatica a sentirci soddisfatti e tutti gli altri ci sembrano stare meglio di noi.
Nathan Hill in Wellness parla di questo, ma anche di tante altre cose.
E’ un romanzo che racconta cosa significhi crescere, essere una coppia, cosa sia l’amore nel tempo passa. È un romanzo sulle storie e sulla forza che hanno nel creare delle illusioni in cui siamo disposti a credere per non crollare
È un romanzo sull’amore e sulla paura. Sull’essere genitori e sull’essere figli. È un romanzo che ti fa sentire meno sbagliato in un mondo che ci vorrebbe tutti giusti. E accende una pietà strana che ti fa fare pace con gli errori e con i rimpianti, con i dolori mai affrontati e le fughe interrotte.
È un romanzo che si domanda cosa sia la felicità, raccontando due ragazzi che sognano in grandi ma che, con il passare del tempo, si rendono conto che questo Wellness, forse, è più nascosto nelle cose piccole
E’ un romanzo che mi ha ricordato a cosa servono le storie e perché il romanzo nonostante i post di ig non morirà mai. E quanto il dubbio, in un’epoca di certezze sia forse la nostra forma più alta di salvezza.
E quindi con lo spirito di una che ha amato i suoi libri -e si è anche molto divertita mi riferisco ai personaggi di Kate e Kyle, chi l’ha letto sa a cosa mi riferisco- e vorrebbe avere una bussola, gli ho fatto queste domande… e ho scoperto una cosa incredibile… che Virginia Woolf (e il suo Mrs Dalloway) ha un ruolo molto importante, anche, in Wellness!
La storia ruota attorno a Jack ed Elizabeth due ventenni che vivono nella Chicago del fermento culturale anni ’90 – lui sogna di fare l’artista, lei vorrebbe cambiare il mondo con la conoscenza psicologica- che poi ritroviamo a 40 anni a litigare su cosa dare da mangiare al figlio Toby. Li vediamo in una piccola casetta da studenti, felici di stare stretti nel loro amore, e poi – a 40 anni- alle prese con l’acquisto della “casa per sempre”, nel quartiere “giusto”, con le conoscenze “giuste”, ma sempre più in crisi tra di loro…
Come sono nati Jack ed Elizabeth? Qual è stata la prima immagine di loro? Te li sei immaginati ventenni, innamorati nella Chicago degli anni ’90, oppure già quarantenni, che cercano una casa più grande e litigano su chi deve andare a fare la spesa?
Nathan Hill:
Ti risponderò: entrambe le cose. Ho scritto il primo capitolo quando avevo circa 24 o 25 anni. All’epoca vivevo a New York, in un piccolissimo studio nel Queens. Dalla mia finestra potevo vedere un vicolo che si affacciava su un altro edificio di mattoni rossi. Era tutto scuro, non si vedeva niente.
Ed è lì che ho avuto l’idea di due persone che si scorgevano dalle reciproche finestre e che pian piano si innamoravano. All’inizio l’avevo pensata come una storia breve, poi pian piano ho continuato a rifletterci. L’ho pubblicata e, per un po’, me ne sono dimenticato.
All’epoca ero felice, sposato, e stavo vivendo un’altra fase della mia vita. Mi sono ricordato di quelle due persone che si stavano innamorando, di queste fantasie che proiettavano sull’altro. Mi sono detto: “Erano così ingenui”.
E mi sono chiesto se non sarebbe stato interessante tornare e vedere cosa succedeva a quella coppia. Così ho scritto il capitolo 2.
Spero che per voi, quando lo leggerete, il passaggio tra il capitolo 1 e il 2 risulti naturale. Ma per me, tra scrivere quei due capitoli, sono passati circa quindici anni.
Marta:
È molto bella questa cosa del processo creativo che dura tantissimo, anche anni. Noi siamo abituati a scrittori che ogni anno scrivono e pubblicano. Nel tuo caso, invece, i due romanzi — anche se entrambi bellissimi, anche The Nix — hanno quasi dieci anni di distanza. Qual è il tuo processo di scrittura?
Nathan Hill:
Grazie. Sì, penso che il mio agente vorrebbe che fossi molto più veloce di come sono… Sto scherzando, in realtà è molto paziente e accetta il mio ritmo.
Non so come farò con il mio prossimo romanzo. Non mi piace sapere in anticipo dove sto andando. Mi piace essere sorpreso. Penso che, se sono sorpreso mentre scrivo, allora anche il lettore si sorprenderà mentre legge.
Mi piace quel senso di scoperta che accade nella scrittura. La maniera in cui la storia può aprirsi da una piccola idea, e poi esplodere in possibilità.
Marta:
Hai parlato anche di una metafora per il tuo metodo di scrittura: lo slime…
Nathan Hill:
Sì, la metafora che uso per descrivere il mio processo creativo è proprio lo slime. Non so se lo conoscete: è quel gioco verde, molliccio, che si tira da una parte e dall’altra.
Ci giocavo da bambino. È qualcosa senza forma, e mi piaceva moltissimo. È così che lavoro sui miei romanzi: raccolgo idee che arrivano da ovunque — film, podcast, articoli — e lascio che si attacchino al progetto.
Man mano prende forma. Mi piace pensare che, come scrittore, ho il permesso di esplorare il mondo. Ed è per questo che ci metto così tanto.
Marta:
L’effetto che si ha leggendo Wellness è proprio questo. Un po’ come un ipertesto: non sai mai dove andrai a finire. Prima racconti cosa legge Elizabeth, poi torni alla loro infanzia, poi salti a un capitolo interamente dedicato agli algoritmi... completamente scollato, ma meraviglioso.
Tornando al tema delle case: il romanzo si apre con due piccole case, quelle da cui i protagonisti si guardano e si innamorano. Poi, vent’anni dopo, li ritroviamo alle prese con l’acquisto della “casa per sempre”. C’è questa metafora molto bella: quando un amore nasce è talmente grande che si accontenta di spazi piccoli… poi più l’amore scema o si trasforma più si ha bisogno di un proprio spazio..
Progettano di vivere in un quartiere gentrificato, con ottime scuole, famiglie borghesi, bambini ben vestiti. Elizabeth desidera moltissimo far parte di quella comunità. Che ruolo hanno le case nel romanzo?
Nathan Hill:
Ho pensato a degli amici reali. Uno era un hippie al liceo, ora è un avvocato che vive in una casa enorme. Un altro era super religioso, oggi fa lo sciamano e usa LSD.
Le persone cambiano. Ma spesso raccontano a sé stesse e agli altri che non sono mai cambiate. È affascinante vedere quella trasformazione e insieme il tentativo di negarla.
Negli Stati Uniti abbiamo il cosiddetto American Dream. Comprare casa, ristrutturarla… è quasi un secondo lavoro. Abbiamo interi canali TV dedicati alle case.
La casa diventa il simbolo della relazione: se va bene, deve riflettersi in una casa bellissima. Mi piaceva il paradosso: in Wellness, Jack ed Elizabeth sono in crisi… ed è proprio allora che comprano la loro casa “per sempre”.
Marta:
Sì, è così anche in Italia. Abbiamo profili social e programmi TV che ci fanno vedere case bellissime, grattacieli, cucine da sogno.
Poi guardi i prezzi e ti senti incredibilmente povera. All’inizio dici: “Forse mi serve davvero la camera padronale”, ma poi ti resta solo frustrazione, perché quella camera non la costruirai mai.
E questo ci porta al titolo stesso: Wellness. Un’idea di benessere che, anche per chi parte da ideali controculturali, alla fine diventa borghese.
Secondo te, nel mondo occidentale possiamo davvero scappare da questa narrazione?
Nathan Hill:
Credo che sia difficile. Wellness è un libro sulle storie che ci raccontiamo su noi stessi.
Jack ed Elizabeth, nei loro vent’anni, si raccontano di essere artisti, bohémiens. Poi, ovviamente, quella storia cambia.
È difficile non essere influenzati dalla cultura, dal desiderio, dal consumismo. Tutte queste forze attraversano le nostre vite, ma ci illudiamo che il desiderio sia autenticamente nostro.
La verità è che spesso non sappiamo nemmeno da dove venga ciò che desideriamo. Perché vogliamo quella cucina? Perché pensiamo di avere bisogno di una camera padronale?
A volte è un mistero.
Marta:
Il libro è anche una riflessione sulla narrazione di sé. Siamo immersi in desideri che pensiamo nostri, ma forse non lo sono. Secondo te possiamo davvero sfuggire a queste influenze?
Nathan Hill:
Penso che sia davvero difficile. Wellness è un libro sulle storie che raccontiamo a noi stessi su chi siamo. Jack ed Elizabeth hanno una narrazione ben precisa su di sé a vent’anni: sono artisti, bohémiens. Ma poi, inevitabilmente, quella storia cambia.
È difficile non essere influenzati da cultura, desiderio, consumismo. Sono forze che attraversano le nostre vite. Pensiamo che certi desideri siano davvero nostri, ma spesso non sappiamo nemmeno da dove arrivino. Perché vogliamo proprio quella cucina? Perché ci serve una camera padronale? È misterioso.
Marta:
Nel libro c’è anche una fotografia, una Polaroid che hai scattato tu stesso, e che sembra avere un significato simbolico. Ce la racconti?
Nathan Hill:
Sì, è un'immagine molto importante per me. L'ho scattata nelle pianure del Kansas, da dove provengo. In quella zona ci sono pochissimi alberi. È tutto piatto. Ma a volte, un albero riesce comunque a crescere. Solo che viene piegato dal vento: cresce storto.
Mi ha colpito moltissimo. Quegli alberi storti, per me, sono come i miei personaggi. Come tutti noi. Siamo plasmati da forze invisibili — cultura, evoluzione, biologia, teologia, la famiglia in cui cresciamo. Queste cose ci piegano in direzioni diverse, e spesso non ce ne rendiamo conto.
Marta:
So che per scattare quella foto hai corso anche qualche rischio.
Nathan Hill:
Sì, per scattare quella Polaroid ho dovuto saltare un recinto. C’erano animali in giro, ero in Kansas, e non sapevo se il proprietario fosse armato. Negli Stati Uniti, i proprietari dei ranch hanno spesso le pistole. È stato pericoloso, ma volevo assolutamente quell'immagine.
Adesso, ogni volta che la guardo, mi ricorda che i miei personaggi — come quell’albero — sono stati piegati, a volte senza accorgersene.
Marta:
In Wellness, accompagniamo Jack ed Elizabeth lungo centinaia di pagine, e man mano capiamo perché si comportano in un certo modo. Una delle riflessioni più belle è quella sul tempo, fatta da un personaggio secondario, Benjamin. Dice: "Le nostre vite sono vincolate dal tempo, ma i nostri ricordi no".
Nathan Hill:
Sì, quella frase è importante. Spiega anche la struttura del libro. Wellness va avanti e indietro nel tempo. A volte un capitolo è ambientato vent’anni prima o dopo il precedente.
Ma ho voluto creare sempre un legame, anche minimo, tra ogni capitolo e quello successivo: un tema, una parola, un’immagine. È come la memoria: un profumo, una canzone, un’immagine ti riporta all’improvviso a vent’anni prima. Volevo che il libro si muovesse così, come una memoria viva.
Marta:
Hai anche lavorato a un adattamento televisivo, giusto?
Nathan Hill:
Sì, ho passato un anno e mezzo a Los Angeles a lavorare su una serie TV ispirata a Wellness. Ho parlato con diversi attori.
I giovani mi dicevano: “Non voglio interpretare un quarantenne”. Gli attori più maturi dicevano: “Nessuno mi crederà come ventenne”. È complicato trovare chi possa coprire tutto l’arco temporale.
Ma un romanzo può farlo con naturalezza. Puoi passare da un anno a vent’anni dopo in una singola frase. È uno dei motivi per cui amo scrivere romanzi.
MARTA:
I tuoi romanzi mi hanno fatto pensare a Proust, Virginia Woolf, Jonathan Franzen… e anche un po’ a Christopher Nolan. Ti ritrovi in questi riferimenti?
Nathan Hill:
Chi era l’ultimo? Ah, Nolan, certo. Li amo tutti, davvero. Ma soprattutto Virginia Woolf.
L’ho letta tardi, all’università, quando dovevo leggere Mrs. Dalloway per un corso. Quell’esperienza mi ha cambiato. Amo il modo in cui Woolf riesce a raccontare la sensazione di essere dentro la mente di un altro.
La letteratura è l’unica invenzione che ci permette di provare cosa si sente a essere qualcun altro. La profondità interiore che Woolf riesce a raggiungere mi ha ispirato moltissimo.
Marta:
E questa attenzione alla psicologia si riflette anche nel personaggio di Elizabeth, che studia psicologia, lavora in una compagnia particolare che studia le conseguenze dell’effetto Placebo nella mente delle persone... Senza fare spoiler, puoi raccontarci com’è nata l’idea delle pillole “dell’amore”?
Nathan Hill:
No, non esiste una cosa del genere nella realtà. Ma l’idea mi è venuta parlando con un amico che spendeva un sacco di soldi in prodotti wellness.
Ricordo che pagava 20 dollari per uno shot di curcuma, convinto che curasse qualsiasi cosa. Gli dissi che non c’erano prove scientifiche. Lui rispose: “Che importa se funziona davvero? Mi fa stare meglio”.
Quella frase mi ha perseguitato. Da un lato pensavo: non dovremmo dare soldi a cose fasulle. Dall’altro: se lo fa stare bene, chi sono io per giudicare?
Poi ho trovato un articolo su una rivista di bioetica di Oxford, dal titolo: “L’ossitocina intranasale può migliorare il matrimonio?”. Lì si chiedevano se fosse etico somministrare sostanze chimiche che stimolano l’amore, per aiutare le persone a innamorarsi di nuovo del proprio partner.
Così è nata l’idea per la storyline di Elizabeth.
Marta:
A un certo punto Elizabeth sottopone suo figlio a un esperimento, il famoso test del mashmallow. È ispirato a ricerche reali?
Nathan Hill:
Sì, si ispira al Marshmallow Test di Stanford, uno studio molto noto.
Personalmente non ho figli, ma tutti i miei amici e le mie sorelle hanno avuto figli più o meno nello stesso periodo. Guardandoli dall’esterno, mi sono reso conto di quanto cercassero di fare tutto “per bene”, leggendo articoli, studi, blog.
Volevano essere genitori perfetti. E questa pressione per la perfezione... li stava facendo impazzire. Così è nato quel capitolo su Elizabeth.
Marta:
Credo che sia un’esperienza comune. Anche in Italia riceviamo continuamente messaggi su cosa stiamo sbagliando: non camminiamo abbastanza, mangiamo male, non siamo produttivi… È come se ci fosse sempre qualcosa da migliorare. Il tuo libro ci fa sentire meno sbagliati.
Nathan Hill:
Sì, e credo che sia anche il punto della riflessione che Elizabeth fa a un certo punto, citando la famosa “curva a U” della felicità. Le ricerche mostrano che siamo più felici intorno ai vent’anni, poi la felicità cala fino ai quarantacinque-cinquanta, e poi risale verso i sessanta.
Ci sono ragioni sociali: a quarant’anni, spesso ti prendi cura sia di figli piccoli che di genitori anziani. Ma c’è anche una questione di aspettative.
A vent’anni pensi: “Appena metto a posto la mia vita, sarò felice”. Poi arrivi a quarant’anni e ti chiedi: “Perché non sono felice?”. E quando arrivi a sessanta, scopri che non è così male come pensavi.
Molto dipende da come gestiamo le nostre aspettative.
Marta:
C’è un momento nel libro che mi ha colpita molto, che arriva verso la fine, attraverso il pensiero di Elizabeth
“Forse il vero amore era proprio quello: abbracciare il caos. E forse le uniche storie che avevano conclusioni nette e definite erano le bugie, le favole e le cospirazioni. Forse era come diceva il dottor Sanborne: la sicurezza era solo una narrazione che la mente creava per difendersi dal dolore di vivere. Il che significava, quasi per definizione che la sicurezza era un modo per evitare di vivere. Si poteva essere sicuri o si poteva scegliere di essere vivi”
Come è nata questa riflessione? La sicurezza è il nostro placebo?
Nathan Hill:
Sì, quella riflessione è arrivata molto tardi nella scrittura, quasi alla fine del processo.
Per me è stato fondamentale arrivare a capire — forse è ovvio, forse no — che amare qualcuno davvero significa anche riconoscere la sua individualità, la sua libertà.
Il tuo partner non è te. Non sarà sempre d'accordo con te. Ma merita comunque cura, rispetto, amore.
Spesso, quando cerchiamo sicurezza, ci aggrappiamo all’altro: vogliamo sentirci al sicuro, pensare “questa persona non mi lascerà mai”.
Ma quell’attaccamento può oscurare la reale identità dell’altro.
Quello che ho imparato — dalla vita, dalla scrittura, dalla ricerca — è che è importante amare senza aggrapparsi. Lasciare che l’amore esista per com’è, e nutrirlo con libertà.



