La tanta vita di Viola Ardone
Un segreto è una bugia. Mille segreti fanno una vita
Non sempre le nuvole offuscano il cielo. A volte lo illuminano.
Elsa Morante, La storia
Care e cari, bentrovati in questa newsletter un po’ inusuale di lunedì. Ieri, al festival Eredità delle donne a Firenze, ho incontrato una scrittrice straordinaria che, incredibilmente, non avevo ancora conosciuto di persona: Viola Ardone.
Un segreto è una bugia. Mille segreti fanno una vita.
Ha scritto romanzi splendidi come Il treno dei bambini, Oliva Denaro e Grande meraviglia raccontando le oscurità del Novecento. Nel suo ultimo libro, Tanta ancora vita, entra nelle crepe della contemporaneità e fa una cosa che mi ha ricordato molto Elsa Morante: cerca le possibilità di luce sotto le nubi che sembrano coprire tutto il cielo.
Abbiamo parlato di guerra, ma anche di bambini, di speranza, di Natalia Ginzburg e di Leopardi. Viola (Ardone) è una scrittrice raffinata, ma anche una donna piena di empatia. E umanità.
Questo Cicù fanno i bambini alle persone, le sintonizzano sul tempo dell’amore.
Questa intervista mi ha fatto bene. Se volete, potete recuperare il video a questo link oppure leggerla qui sotto.
Marta:
Noi lo avevamo già intuito dai tuoi libri passati, dalla tua trilogia del Novecento, dove hai indagato le crepe del secolo con quell’immagine delle nuvole, delle nubi. Come diceva Elsa Morante, a volte non coprono solo il sole, ma riescono persino a dargli una luce diversa. Questa volta però ti confronti con la contemporaneità.
Qualche mese fa, alla Mostra del Cinema di Venezia, ho intervistato una regista tunisina, Kaouther Ben Hania, che ha realizzato un film meraviglioso, The Voice of Hind Rajab. Racconta la storia vera di una ragazzina uccisa a Gaza dall’esercito israeliano. Lei mi ha detto una cosa che mi ha colpita molto: “Ci sono questioni contemporanee che hanno bisogno di una storia per uscire dal sovraffollamento dell’informazione, dall’infodemia, e arrivare davvero alle persone”.
E mi sei venuta in mente tu. Quindi la prima domanda è questa: perché a un certo punto hai sentito che la tua scrittura doveva mettersi al servizio della contemporaneità? Perché raccontare la guerra in Ucraina? Quando è arrivata la scintilla?
Viola Ardone:
Mi ha colpito molto la frase che hai citato, perché è esattamente così. Il film si chiama La Voce di Hind rajab: la voce, con l’articolo determinativo. Una singola voce può fare più rumore di tante. Le voci, i nomi e i volti, quando diventano troppi, si confondono. È quello che accade con le migliaia di persone uccise, con i bambini morti a Gaza, con gli edifici bombardati in Ucraina. I grandi numeri generano disaffezione, una specie di presbiopia: non riusciamo più a vedere da vicino, a distinguere le storie.
L’articolo determinativo è molto letterario. La letteratura fa proprio questo: mette un “la”, un “il”, un “lo” davanti alle storie, le restituisce al singolare.
Il mio libro non parla della guerra in Ucraina in senso diretto. Racconta tre persone. Tre voci le cui vite sono state toccate, travolte,, smosse dalla guerra. Poteva essere un’altra guerra, o un terremoto. Ci sono eventi che rimettono in movimento le esistenze, e la guerra purtroppo è uno di questi. Rimescola le vite, crea conflitti, fughe, migrazioni. Accade da sempre. Il primo grande racconto di guerra della nostra tradizione è l’Iliade, e da lì nasce tutto: il ritorno degli eroi, la fuga degli sconfitti, la ricerca di una nuova dimora, come Enea.
Io ho provato a raccontare un epos contemporaneo. Tre voci che si muovono dentro questa guerra che, in fondo, viviamo anche noi da anni. Lo abbiamo visto con la prima ondata di profughi ucraini, le donne e i bambini accolti in Italia.
Ho pescato tre figure dal mazzo dell’umanità.
La prima è Kostya un bambino di dieci anni. Il padre, Roman, lo mette su un treno e gli dice di raggiungere la nonna, che lavora in Italia. Lui invece si arruola, così gli dice...
La seconda voce è Irina, la nonna. Una collaboratrice domestica, come tante donne ucraine in Italia.
La terza voce è Vita, la “padrona di casa” in cui Irina lavora. In realtà hanno la stessa età, circa cinquant’anni. Ma Vita non sta vivendo un momento vitale, anzi. È dentro una depressione profonda, legata a un lutto gravissimo.
La guerra è la pallina del flipper che avvia tutto.
Marta:
Sì, perché le guerre che racconti sono esterne ma anche interiori. Hai parlato di Vita e Irina, e devo dirti che Irina è uno dei miei personaggi preferiti. Questa collaboratrice domestica che ha studiato filosofia, che ha imparato l’italiano con Dante e si esprime con Dante. Ha una ricchezza interiore enorme, che però fatica a far emergere nella lingua che non è la sua. Eppure, è proprio nell’incontro con Vita che qualcosa si muove.
Nel libro scrivi, con la voce di Irina:
Siamo entrambe in battaglia, io e la signora. Tutte e due con un figlio lontano. Ci sono tante cose che io conosco e lei no.
Com’è costruito il rapporto tra queste due donne, così diverse e così profondamente connesse?
Viola Ardone:
Sono due donne parallele. Entrambe sulla cinquantina, entrambe con un figlio della stessa età. Irina ha un figlio al fronte, Roman, il padre di Kostya. Vita un figlio lontano per sempre, una perdita che le ha tagliato il respiro.
Questo però non le rende automaticamente amiche. Ho voluto evitare l’idea della sorellanza a tutti i costi. Condividono un tratto di strada, ma non sono intime. Una lavora nella casa dell’altra. Irina è arrivata in Italia molti anni prima, come tante.
Sono due donne che non si cercano. Eppure sono costrette a convivere. Tra loro esiste quella dinamica che Irina stessa, la filosofa, chiama “servo padrone”. Lei ha studiato filosofia contro il volere della madre, che la voleva operaia. Ha scelto il desiderio, poi la maternità l’ha costretta a partire per cercare lavoro e lasciare il figlio.
È colta, osservatrice. Non è pettegola, lei cataloga. Dice: “La filosofia mi è servita. Non posso portare ordine spirituale, ma almeno posso mettere ordine materiale nella vita degli altri.” E nei capitoli spiega come si stira una camicia, come si smacchia un tessuto, fa persino una piccola fenomenologia della polvere.
Vita invece sopporta a fatica questa presenza. Sta male. Ha dato un nome alla sua depressione: Orietta. Le serve per parlarle, per separarla da sé. Dice: “Io sono Vita e tu sei Orietta. Non siamo la stessa cosa”.
Tra loro c’è distanza. Ognuna la difende. Ma a un certo punto si incontrano nel punto più profondo: la maternità ferita. Entrambe si sentono madri interrotte. In modi diversi. E lì qualcosa cambia.
Marta:
Prima di arrivare al cuore profondo del romanzo, che confesso mi ha tenuto addosso per giorni, volevo parlarti di un altro personaggio che adoro e che troviamo anche in copertina: il pappagallo Massimo. È lui che fa scattare i battibecchi più divertenti con Irina e che tira fuori anche la sua vena comica. Come nasce Massimo? E forse un po’ in tutti i tuoi libri c’è questa capacità di far passare l’umorismo attraverso un personaggio, qui in particolare grazie a Irina.
Viola Ardone:
In fondo l’umorismo salva. C’è nelle pagine del romanzo. Non è un libro che fa ridere perché racconta cose terribili, però ci sono momenti in cui si sorride. È quell’ironia che ci permette di respirare dentro le tragedie del quotidiano.
Io non ho avuto un pappagallo, ma due bengalini. Quegli uccellini con la testolina colorata. Li avevo presi perché mio figlio, allora piccolo, voleva un animale. E come Vita nel romanzo, ho fatto la lista degli animali possibili. Il cane no, troppo impegnativo. Il gatto no, per evitare graffi e disastri in casa. Il pesce rosso lo avevamo già provato: campato una settimana. Allora ho pensato agli uccellini. Li prendo. Cip cip tutto il giorno, una compagnia adorabile.
Una mattina li trovo stecchiti. Vado di corsa dall’uccellaio alle sette e mezza e ne prendo altri due, più simili possibile, così mio figlio non se ne accorge. Dopo due settimane, stecchiti anche quelli. Alla fine ho dato la colpa a Olga, la mia Irina personale, la signora che mi aiutava. E ho raccontato a mio figlio che lei aveva lasciato la gabbia aperta e loro erano volati via per ricongiungersi alla famiglia. Non riuscivo ad affrontare il tema della morte con lui. Gli ho costruito una fiaba. E ancora oggi, che ha quattordici anni, mi dice: “Eh, quella volta Olga ha lasciato la gabbietta aperta”. È rimasto un piccolo trauma familiare.
Così, come me, Vita decide di prendere un animale domestico per alleviare la sua sofferenza. Il suo psichiatra glielo suggerisce. Lei fa il suo bestiario mentale e sceglie un pappagallo. Perché? Perché parla. E quindi le fa compagnia. Lo chiama Massimo, come l’ex marito. Sono separati da poco, anche per via del dolore che li ha travolti. Lei dice: “Lo chiamo Massimo, almeno sono già abituata a chiamarlo”. Irina però la ferma. Da filosofa cartesiana qual è, dice: “Aspetta. Dobbiamo fare distinzione, sennò non ci capiamo”. E così l’ex marito diventa Massimo marito, e il pappagallo Massimo uccello.
La comparazione, inevitabile, è comica. Irina dice: “Massimo uccello parla più di Massimo marito”. Ma aggiunge anche che Massimo marito almeno non lasciava ricordini per casa, perché Vita ogni tanto lascia libero il pappagallo, con le conseguenze del caso. E Irina non è contenta.
Sono momenti più leggeri, perché così è la vita. Lo sguardo ironico, per chi ce l’ha, non si spegne neanche nei momenti più bui. È una corda nostra. E anche nella scrittura cerco sempre di evitare il monocolore. Non mi interessa spingere tutto sul dramma. È facile far piangere il lettore mettendo in scena un dolore enorme. Ma non è onesto. Un buon romanzo, come un film o uno spettacolo, deve avere semitoni: il drammatico, il comico, la commozione. Sono i tasti di un pianoforte. Una sinfonia. Credo sia una mia caratteristica. Forse anche un mio modo di stare al mondo.
Marta:
E ci riesci benissimo. Pensavo, mentre parlavi, al Lessico famigliare della Ginzburg. Che è un romanzo che fa ridere anche nei momenti tragici. Forse ci salva proprio quell’ironia, quei modi di dire condivisi. E in fondo i tuoi personaggi iniziano a costruire una sorta di famiglia, anche se non lo sono.
Viola Ardone:
Sì, è vero. Sono tre linguaggi molto diversi. Sono tre io narranti, quindi ho voluto tre voci riconoscibili. E queste voci, man mano, si scambiano modi di dire. È quello che succede nelle famiglie. Non è il DNA a fare una famiglia, ma le parole che ci scambiamo.
Succede anche nelle storie d’amore: ci si accorge di essere innamorati quando si adotta il linguaggio dell’altra persona. Il vocabolario condiviso è un legame. E così succede tra Irina, Vita e Costi. Sono tre individui sghembi, ognuno con un pezzo mancante. E questo bambino, che arriva dopo un viaggio avventuroso e dorme sullo zerbino di Vita come portato da una cicogna, aggancia entrambe.
La reazione iniziale di Vita è di rifiuto totale. Lei si sente una madre interrotta. Non vuole tornare a esserlo. Ma i bambini non lasciano scampo. Loro dicono: “Ho fame, ho sonno, ho bisogno di qualcuno che si prenda cura di me, e tu sei un adulto”. E ti riportano alla vita. Non c’è depressione che tenga.
Una lettrice, dopo un incontro, mi ha detto una cosa bellissima. Il titolo Tanta ancora Vita lei lo aveva letto non come “ancora” avverbio, ma come “ancora” oggetto. Una ancora che ti ancora alla vita. Io ho sorriso, perché chi legge spesso vede cose che chi scrive non ha ancora messo a fuoco. Ma aveva ragione. È questo il senso del libro. Da oggi, per me, sarà anche tanta àncora Vita.
Marta:
C’è un’altra cosa che ti voglio chiedere da quando ho iniziato a leggere questo libro. Perché, da lettrice, è doloroso. Il dolore che porta con sé Vita è enorme, quasi indicibile. Tu in un’intervista hai detto che la scrittura dà coraggio. Ma come si affrontano, da scrittrice e da madre, dolori così assoluti?
Viola Ardone:
Scrivo cose che mi fanno paura. E la paura più grande, per chiunque abbia un ruolo genitoriale, biologico o affettivo, è la perdita di un figlio. È una lontananza impronunciabile, e non a caso nella nostra lingua non esiste una parola che la definisca, perché è un tabù.
Proprio perché questa cosa mi spaventa, ho deciso di scriverla. Come in una tragedia greca. La metti in scena, la metti a distanza, la consegni al teatro interiore. Il dolore passa da lì, da una finzione che però è un rito. Non è che la paura passi scrivendo o leggendo. Quella rimane. Ma è come quando i bambini chiedono una storia crudele prima di dormire. Le fiabe antiche erano feroci: il lupo che ingoia Cappuccetto Rosso, i genitori di Hansel e Gretel che li portano nel bosco per abbandonarli.
Il bambino sente quella paura, ma la sente accompagnato dalla voce di un adulto. È un lumino acceso. Sa che la notte passerà e che tornerà la luce. Le storie per noi adulti servono allo stesso modo: sono un lumino. Non ci proteggono dalla morte, ma ci permettono di guardarla senza smettere di vivere.
Marta:
E tu questo lo fai benissimo. I tuoi libri entrano davvero nel cuore dei lettori.
Visto che abbiamo ancora qualche minuto, vorrei chiederti un’altra cosa. Il romanzo non è un romanzo di guerra, è chiaramente centrato sui personaggi. Però la guerra entra, eccome. Lo fa anche attraverso Massimo Mezzanotte, l’ex marito di Vita, giornalista del radiogiornale. La sua voce porta dentro casa i bombardamenti, le notizie, la cronaca. Poi a un certo punto si va anche in Ucraina… Quanto è stato difficile inserire una cronaca così vicina dentro un racconto di finzione?
Viola Ardone:
La guerra è una delle mie paure. E la vediamo ancora oggi. Però non è stato difficile ricostruirla. Avevo chiari nella mente i primi momenti: il 24 febbraio 2022, i carri armati, l’escalation, i negoziati. Era un quadro nitido.
La guerra entra in casa di Vita attraverso il radiogiornale, perché Massimo lavora lì. Anche se sono separati, lei lo ascolta per sentirne la voce. Per farsi compagnia. Le notizie, però, le scivolano addosso. Un po’ perché sta male, un po’ per distanza. Rappresenta una parte di noi: quella che ascolta numeri e tragedie con un certo torpore emotivo. Quando i numeri diventano enormi, diventiamo miopi.
La parte più difficile, invece, è stata ricostruire il Covid. La guerra arriva proprio mentre il Covid grave sta finendo. E lì ho capito che avevo rimosso tutto. Come molti. Non ricordavo più le regole, le quarantene, i protocolli, la scuola a distanza, la durata dei tamponi. Ho dovuto cercare tutto. Era la prova che quel trauma non l’abbiamo ancora digerito davvero.
Il romanzo nasce su quella doppia frattura: Covid e guerra ai confini dell’Europa. Come se il nuovo millennio fosse iniziato lì. Il Novecento si è allungato fino al 2022, e poi si è spezzato. Da quella faglia arrivano le nostre storie.
Marta:
Dopo aver scritto il romanzo tu dici che “questa cosa qui fa la guerra alle persone, le squadra, le mischia, complica i dolori”. Che cosa hai capito della guerra? E dopo questa immersione hai più o meno paura di questi tempi?
Viola Ardone:
Ho la stessa paura. Basta aprire un giornale per sentirne il peso. Ma ho capito una cosa: ci hanno insegnato la pace come un concetto semplice. La colomba, il ramoscello d’ulivo, il rifiuto della violenza.
Oggi scopriamo che la parola “pace” è scivolosa. Cosa vuol dire pace? Arrendersi? Consegnarsi? Continuare a chiedere armi? Rassegnarsi a un prepotente? Il discorso di Zelensky dell’altro giorno mi ha commossa: un uomo che chiede al suo popolo “Che facciamo? Qual è il prezzo giusto?”. È un bivio politico ed etico enorme.
La letteratura non dà risposte. Fa domande. E io nel libro ho messo domande, non giudizi.
Marta:
E al centro ci sono gli sguardi dei bambini. C’è una frase del libro che mi ha colpita tantissimo: “I bambini sincronizzano le persone sul tempo dell’amore”. Che cosa ci possono insegnare bambini e ragazzi in questo presente che spesso li vorrebbe anestetizzati?
Viola Ardone:
I bambini sono il nostro orologio. Dettano i tempi del cibo, del sonno, del gioco. Quando ti prendi cura di un bambino, ti sincronizzi sul suo tempo. Non il contrario.
Mio figlio ha quattordici anni. Io ho poca memoria dei fatti della mia vita, ma lui è la mia meridiana. Prima o dopo di lui so collocare tutto. La sua crescita segna il mio invecchiamento. È giusto così. Sono un orologio che ci mettiamo in tasca per sempre.
Quando viene a mancare, in modo innaturale, come succede a Vita, il tempo si spezza. Lei è una donna senza tempo.
Marta:
Chiuderei con una riflessione. Mi viene in mente il titolo di un libro: Nessuno si salva da solo. È un po’ quello che racconti. Ci salviamo quando non ci aggrappiamo agli altri, ma ci apriamo agli altri.
Viola Ardone:
Sì, è così. Non si salvano l’uno grazie all’altro. Non sappiamo nemmeno se si salvano. Però si riconoscono. Ognuno di loro è come un palazzo bombardato con un buco al centro. La parte rimasta in piedi potrebbe crollare, ma se un altro palazzo accanto ha un buco simile, allora ci si puntella. Ci si sostiene.
Costi ha un padre lontano e una madre assente per ragioni che si scoprono nel libro. Vita è smembrata dal dolore. Irina è una migrante, e il migrante è sempre un essere con una mancanza: ha lasciato un pezzo della sua vita altrove. Ognuno è un palazzo colpito. E insieme si reggono.
È quella “social catena” della Ginestra di Leopardi. L’idea che l’altro esiste, e che nella fragilità condivisa c’è un’alleanza. Leopardi lo capisce alla fine della sua vita: la ginestra che cresce sul Vesuvio, sulla terra bruciata, e profuma comunque. Una poesia di speranza.
Una segnalazione utile
Fino al 30 novembre ci sono gli sconti sul catalogo Blackie, che pubblica libri splendidi, sia in libreria sia negli store online. Ho raccolto alcuni titoli da non perdere in questo reel
Dove ci vediamo questa settimana?
Il 25 novembre, alle 18.30, alla libreria Mondadori Duomo di Milano, modererò la tavola rotonda “Quello che le storie ci dicono”: un incontro tra teatro, letteratura, psicologia e linguistica per riflettere su quanto conti il modo in cui raccontiamo le differenze di genere, le relazioni, il potere, il corpo e la libertà.
Con me ci saranno:
• Valeria Perdonò, attrice, speaker e co-fondatrice di AMLETA
• Lorenza Gentile, scrittrice
• Valeria Locati, psicologa, psicoterapeuta e libroterapeuta
• Veronica Repetti, linguista e divulgatrice






Che intervista intensa. Mi è piaciuto soprattutto come emerge l’idea che le storie possano restituire ordine al caos dell’attualità: quando tutto è rumore, seguire una sola vita permette davvero di capire ciò che i numeri non raccontano.
E poi l’immagine delle persone che si sostengono a vicenda, non perché si salvano davvero, ma perché riescono a restare in piedi insieme nonostante le crepe. È una metafora potente dei nostri tempi.
Una lettura che arricchisce e lascia un segno.