Sognavo di essere Alice, e invece sono il Bianconiglio
Avere figli è (oltre a tutto il resto) un viaggio nel tempo e ti costringe a ricordare quello che nei meandri della memoria iniziava a slabbrarsi: il passato, remoto
“La temporalità è la radura dell’essere stesso”
Martin Heidegger
Mi risuonava questa frase di Heidegger – uomo di dubbia morale, filosofo difficilissimo da leggere che, però, devo ammettere ha avuto ottime intuizioni per descrivere i nodi della vita contemporanea, mentre con mio figlio guardavo – obbligandolo – il mio cartone animato preferito.
Avere figli è – oltre a tutto il resto – un viaggio nel tempo e ti costringe a ricordare quello che nei meandri della memoria iniziava a slabbrarsi: il passato, remoto. E così mentre Orlando guarda Alice, io rivedo la piccola Marta che, grazie alle narrazioni, iniziava a crearsi la propria struttura interiore. A sognare: farò questo, farò quello, sarò così, sarò colà.
Come tutti i bambini avevo grandi aspettative per me stessa. Ero convinta di essere speciale e che tutti avrebbero notato il mio essere speciale prima o poi – come tutti i bambini, avrei scoperto dopo… (se vi interessano i sogni megalomani dell’infanzia vi consiglio di leggere Memorie di una ragazza perbene di Simone De Beauvoir).
E soprattutto volevo essere Alice. Invece sono diventata, sicuramente agli occhi di mio figlio, il Bianconiglio.
“Dovrei essere là, invece sono qua!”.
Una continua corsa e rincorsa verso chissà che cosa. Cioè in realtà lo sai… il lavoro, la propria realizzazione… l’essere una madre vagamente presente.
L’altro giorno mentre presentavo Colazione al parco con Virginia Woolf (ah, è ancora in vendita… e lo sto ancora presentando in giro, parlatene, condividetelo se vi è piaciuto, altrimenti i libri finiscono sepolti nei retrobottega delle librerie e non li prende più nessuno, e di conseguenza l’autrice non vendendo abbastanza non sarà chiamata a scrivere di nuovo, quindi in sostanza se volete altri miei libri, vi chiedo una mano nel condividere quello che c’è… odio fare questi appelli ma purtroppo sono necessari; lo trovate a questo link, e spero in molte librerie, se non c’è chiedetelo). Dicevo. Presentavo il libro e abbiamo iniziato a parlare di Illusioni perdute, su ciò che siamo disposti a perdere in nome del lavoro o del successo – Balzac è stato così lucido e antesignano a parlare di questo tema – e Raffaella, la brava libraria di Virginia e Co che mi presentava, ha fatto notare quanto il lavoro sia il tema forse più urgente per riscrivere le nostre vite, di bianconigli in affanno.
Mi autocito – scusate – il resto lo trovate in Colazione al parco:
Voi avete talento, cercate di prendervi la vostra rivincita. Il mondo vi disprezza e voi disprezzate il mondo. Rifugiatevi in una mansarda, scrivete dei capolavori, impadronitevi di un potere qualsiasi e vedrete il mondo ai vostri piedi; allora gli restituirete le ferite che vi avrà fatto e dove ve le avrà fatte.1
Non vorrei scomodare Friedrich Nietzsche, ma lo faccio lo stesso. Anzi. Scomodo pure Giorgio Agamben il filosofo che ha approfondito il pensiero del filosofo tedesco sull’inattualità dell’arte, in un saggio che si intitola “Che cos’è il contemporaneo” e in cui scrive “Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”.2
Perché certe opere d’arte ci appaiono di una contemporaneità disarmante nonostante siano state scritte o realizzate secoli fa?
Perché l’autore non è stato compiacente. Non ha inseguito le mode o i gusti del pubblico, ha visto le crepe della propria contemporaneità e ci è andato a fondo, svelando verità che risultano utili a chi viene dopo.
Illusioni perdute di Balzac fa questo effetto. È un romanzo scritto nella prima metà dell’Ottocento – tra il 1837 e il 1843 per essere precisi –, ma che pare scritto ieri. È una critica spietata non solo dell’avidità e dell’ambizione senza scrupoli, ma anche al sistema editoriale, al giornalismo, alla stampa. Lucien Chardon, figlio di un farmacista che però si fa chiamare de Rubemprè rubando il cognome aristocratico della madre, parte da Angouleme, una città di provincia pieno di sogni e desideri di gloria, ma poi si scontra con una Parigi corrotta, dove contano solo l’astuzia, le conoscenze, la capacità di flirtare con i sistemi di potere e avere la meglio.
I giornalisti pubblicano recensioni positive o negative a pagamento, senza alcun rispetto per la verità o la qualità artistica. Il mondo editoriale viene presentato come una vera industria dell’inganno, dove la letteratura diventa un mezzo per manipolare le masse, e il giornalismo uno strumento di potere per chi è disposto a vendersi al miglior offerente. Il contesto è lontano, ma incredibilmente vicino in una realtà contemporanea che pullula di fake news, marketing aggressivo che viaggia sui social media, editoria manipolata, opinioni comprate sui media.
Ma come si fa a stravolgere le narrazioni? Come facciamo a immaginarci un modo di lavorare e rincorrere il tempo diverso?
L’anno scorso ho letto un libro che mi aveva offerto tanti spunti, e si intitola Salvare il tempo di Jenny Odell (NR edizioni), in cui la saggista americana invita a rimettere il tempo “al suo posto”, per evitare di essere sempre in burnout. Partendo da un filosofo che consiglio a tutti di recuperare, Henri Bergson:
Per Bergson il tempo era durata qualcosa di creativo che si sviluppa, ed è piuttosto misterioso, anziché astratto e misurabile.
In sostanza, noi esseri umani abbiamo dovuto dare dei numeri misurabili al tempo per poterlo comprendere, ma l’errore che facciamo è considerare questo “tempo misurabile” la struttura della realtà. Quando in verità il tempo è molto più qualcosa di interiore che di esteriore (come aveva ben intuito la NOSTRA IMMENSA VIRGINIA WOOLF). E quindi il nostro compito non dovrebbe essere riempire il tempo come un tacchino del Thanksgiving delle serie TV americane, ma invece, trovare i modi per farlo espandere ed esplodere dentro di noi.
Io non so quale sia la chiave. So che la lettura – e la scrittura in parte – mi ha sempre salvata. Ed è stata il mio modo per ampliare il tempo. È il mio momento di pace, di complessità, di moltiplicazione degli spazi e delle ore. Di spazio di contraddizioni ed emozioni in un presente anestetizzato e che vuole tutto lineare. Non è un caso che Mrs, Dalloway in origine doveva intitolarsi Le ore…
Il tempo, in sostanza, e ce lo dicono scrittori, filosofi, registi (come Nolan…), è tutto quello che abbiamo. Non trasformiamoci nel Bianconiglio. Continuiamo a sognare Alice.
Libri che ho letto in questi giorni
Fabio Bacà è una certezza. BRAVISSIMO!!!!
Con L’era dell’acquario firma il suo romanzo più ambizioso e stratificato: parte come il ritratto ipercontemporaneo di una sex influencer – Chloe, bella, colta e spietatamente consapevole – e si trasforma in un romanzo sull’identità, sul trauma e sulla possibilità di redenzione. In scena entrano Samuel, adolescente disabile e teneramente feroce; Paolo, suo padre, un uomo in via di ridefinizione, e un nonno che ha avuto – forse – esperienze di premorte. Il vero punto di contatto? Il passato che ritorna, una donna morta in un bosco misteriosamente, e una domanda senza risposta: cosa resta di noi dopo che siamo stati attraversati dalla tragedia? Bacà ha uno stile chirurgico e scintillante, e una capacità rara: quella di farti leggere tre pagine su OnlyFans e tre sul mistero della fede senza perdere mai tono, ritmo o lucidità. Racconta Milano con occhio realistico e ironico, tra locali esclusivi, influencer assetate di like e ossessioni digitali, per poi spostare la lente sulla provincia veneta di Bassano del Grappa, dove tutto rallenta e le crepe dell’anima diventano visibili. Una narrazione tagliente che scava senza voler dare facili lezioni, piena di sarcasmo, dolore e intelligenza. Se ancora non lo avete letto, recuperate tutto Bacà: non capita spesso uno scrittore così bravo nel raccontare il nostro tempo senza farsene travolgere.
Lorenza Gentile sa come prendere per mano il lettore.
Con La volta giusta (Feltrinelli), la scrittrice milanese continua a raccontare quel microcosmo fragile e tenero che si agita dentro ognuno di noi: la ricerca di un posto nel mondo quando il mondo che ci circonda sembra non prevedere il nostro arrivo. Lucilla – protagonista romantica ma per niente sciocca – si ritrova sola a gestire una locanda in un paesino alpino, tra dialetti, silenzi, e fantasmi emotivi. È partita per realizzare un sogno (non suo), ed è lì che impara cosa vuol dire davvero “restare”. L’ambientazione montana è più di uno sfondo: è un controcampo esistenziale, dove ogni tubo ghiacciato, ogni coro dialettale e ogni insetto sul materasso diventa simbolo di una discesa (o salita?) verso se stessi. Gentile scrive con grazia, ironia, ritmo: c’è malinconia, sì, ma anche molta vitalità. I suoi personaggi – l’erborista saggia, il giapponese muto, l’architetto in cerca d’autore – sembrano usciti da una fiaba scritta da chi conosce bene l’ansia urbana, ma non ha ancora smesso di credere nella possibilità di essere felici. E se a tratti la costruzione narrativa procede in una certa linearità (ma in fondo non è un thriller), resta il piacere di una voce onesta, pop ma mai banale. La volta giusta non ti insegna come cambiare vita. Ma ti fa venire voglia di provarci.
Cosa vedere al cinema
Amata di Elisa Amoruso
Con Amata, Elisa Amoruso firma il suo film più necessario. Ispirato a un fatto realmente accaduto, e tratto dal romanzo omonimo di Ilaria Bernardini, Amata è un film che si muove sul terreno sdrucciolevole della maternità contemporanea: quella desiderata, quella evitata, quella mancata, quella impossibile da raccontare. Due donne. Due solitudini. Un nodo comune: cosa vuol dire essere (o non essere) madri, oggi. Da un lato c’è Nunzia (Tecla Insolia), giovane, spaesata, incinta per caso. Dall’altro Maddalena (Miriam Leone, bravissima), professionista quarantenne, travolta da aborti, tentativi falliti, e un desiderio che si fa ossessione. Due storie che scorrono parallele ma si specchiano, attraversate dal trauma, dalla vergogna, e soprattutto da un bisogno di comprensione che nessuno sembra offrire. La regia è asciutta, ma mai fredda. La sceneggiatura (firmata da Bernardini stessa) ha il passo di un romanzo intimo e politico insieme. I dialoghi sono misurati, mai retorici. Il rischio della lacrima facile è costantemente evitato. Nel finale, la “culla per la vita” non è solo un oggetto fisico, ma una metafora potentissima: uno spazio protetto dove lasciare andare senza colpa. Dove l’amore passa anche attraverso la rinuncia, il dubbio, la scelta di farsi da parte. A questo link trovate la mia intervista a Miriam Leone, realizzata per X-Style.
Eddington di Ari Aster
Eddington è il film che non pensavo mi sarebbe piaciuto e che, invece, sto consigliando a tutti. Il regista, Ari Aster, smette di guardare dentro la testa dei suoi personaggi e inizia a guardare fuori, nel caos di un’America implosa.
Un western contemporaneo travestito da satira, con Joaquin Phoenix che si muove tra pandemia, razzismo, complotti da bar e rabbia repressa. Lo scontro tra lo sceriffo e il sindaco diventa una metafora del cortocircuito collettivo: non c’è più un eroe, solo fragilità e fantasmi. Tra echi dei Coen e lampi da tragedia greca, Aster firma il suo film più politico e imperfetto. Un’opera disturbante, incasinata, ma purtroppo troppo vera.
Il professore e il pinguino di Peter Cattaneo
Il professore e il pinguino è perfetto per noi bimbe del professor Keating e Mona Lisa Smile. Ambientato nell’Argentina del 1976, durante il colpo di stato militare, il film segue un professore inglese disilluso che ritrova senso e coraggio salvando un pinguino da una spiaggia contaminata. Una storia vera che diventa parabola: la tenerezza dell’animale si intreccia con la denuncia politica, in un racconto capace di far sorridere e riflettere. Meno graffiante rispetto a Full Monty, ma con un cuore simile: usare l’empatia per scuotere le coscienze. Un film gentile ma necessario, in tempi in cui la memoria rischia l’amnesia collettiva.
After the Hunt di Luca Guadagnino
Non riesco a capire perché After the Hunt non sia stato accolto con più entusiasmo. È un film coraggioso, attuale e scomodo, che ha il merito raro di accendere un riflettore su una delle fratture più potenti del nostro tempo: quella generazionale. Luca Guadagnino, con la sceneggiatura della giovane Nora Garrett, costruisce un dramma morale che è anche un campo minato intergenerazionale. Alma (una severa e insieme vulnerabile Gen X, donna che si è fatta da sé in un mondo di maschi sudando e sacrificandosi per l’unica causa per lei giusta: il lavoro) si ritrova tra due fuochi: Hank (Millennial, carismatico ma ambivalente, in crisi davanti a un mondo che non riconosce più) e Maggie (Gen Z, radicale, iperconsapevole, ma anche spietata nei confronti delle ambiguità altrui). Il risultato? Uno scontro non solo tra persone, ma tra valori, linguaggi, modalità di vivere il desiderio, il lavoro, la responsabilità. È come se ciascuno dei tre parlasse una lingua diversa, convinto che l’altro stia sbagliando tutto. Ma non ci sono colpe nette. Solo contraddizioni, silenzi, goffi – e volte feroci – tentativi di comprensione. In fondo, è un film sull’impossibilità di stare al passo con la contemporaneità senza inciampare. Nessuno è innocente, ma nessuno è un mostro. Guadagnino ha il coraggio di non offrire né assoluzioni né condanne. Ma ci chiede di osservare ciò che si sta spezzando tra le generazioni, anche nel nome delle migliori intenzioni. E alla fine esci che forse sei più confuso di prima ma ti domandi: ma vale davvero la pena di mettere così tante etichette?
Frase da tenere sul comodino: Il mondo non è fatto per farti sentire a tuo agio.
Domenica 26 ottobre, ore 17:45
Multisala Colosseo
Incontrerò Stefano Baisi, il product designer del film di Guadagnino… un modo per entrare nei retroscena del cinema e capire quanto la scenografia e la costruzione estetica degli ambienti sia non solo cornice ma soprattutto sostanza. Acquista qui i biglietti della proiezione con ospiti.
Dove ci vediamo questa settimana?
Domenica 26 ottobre, ore 10:00 – 12:00
Silent Reading Poetry Party dedicato ad Amelia Rosselli
Spazio Alda Merini – Via Magolfa 30, Milano
Un poetry party diverso dal solito: silenzioso, intimo, condiviso.
Una mattina d’autunno in cui leggere – insieme ma ciascuno per sé – le parole magnetiche e ribelli di Amelia Rosselli, una delle voci più rivoluzionarie del nostro Novecento.
Poetessa, musicista, traduttrice, Rosselli ha scritto nella frattura, nell’esilio, nel dolore. Eppure le sue parole oggi vibrano più che mai. Perché Amelia è contemporanea. Perché la sua lingua irregolare, sonora, ostinata ci insegna a pensare controvento. E perché anche il silenzio, se ascoltato bene, può essere una forma di resistenza.
Porta il tuo libro di Amelia Rosselli, o quello che stai leggendo e vorresti leggere. Leggeremo in silenzio, insieme. Come un atto di cura, come una piccola festa interiore.
Buona lettura e buona visione,
Marta









Bellissimo pezzo, Marta. Tutti siamo sempre di corsa, sempre “in ritardo” su qualcosa, con la testa piena di scadenze e la voglia di fermarsi che non trova mai spazio. Forse la vera ribellione oggi è proprio questa: scegliere di rallentare, di non avere sempre un obiettivo, di lasciarci attraversare dal tempo invece di inseguirlo.